Dante e la Luce
Ritorna la luce dopo il buio. Nel primo canto del Purgatorio riappare la terra. per correr miglior acqua, alza le vele, omai, la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé, mar si crudele; e canterò di quel secondo regno, dove l'umano spirito si purga, e di salire al ciel diventa degno. Il mare è il mare della vita, una metafora che ricorre, perché la vita è ondivaga. La vita è fatta di tensioni, di onde, non è ferma la vita, non è stabile. È come un mare pericoloso, e per navigarlo bisogna alzare le vele, le vele dell'intelligenza. Dante parla dell'ingegno poetico, ovviamente, ma è la volontà e l'intelligenza che sostanzialmente domina questo mare inquieto e permette di attraversarlo. Poi l’altro momento, un verso che poi è entrato nella storia letteraria: appare la luce. dolce color d’oriental zaffiro, che s'accoglieva nel sereno aspetto del mezzo puro, infino al primo giro, agli occhi miei ricominciò diletto, tosto ch’io usci’ fuor dell'aura morta, che m'avea contristati gli occhi e ‘l petto. Appare la dimensione della luce,: “colore di oriental zaffiro” Lo zaffiro è la pietra del rafforzamento dell'anima. La pietra della virtù. La luce attraversa l'aria trasparente. La visione di Dante è questo spettacolo meraviglioso della luce, della prima luce. Prima ancora dell'alba. Il chiarore che ha l’iridescenza dello zaffiro. Oriental zaffiro, non solo perché lo zaffiro è una pietra orientale, ma per il significato dell'oriente, perché l'oriente è il nuovo inizio. È il luogo della rinascita. Dopo che il sole si è inabissato, l'oriente è l'inizio della nuova luce. Cioè si può ricominciare. È l'oriente della speranza. Posso ripartire. Sono rientrato nella luce. Nella tradizione medievale si riteneva che l'ora pre-mattutina fosse l'ora in cui Dio aveva creato il mondo. Lo bel pianeta, che, d’amar, conforta, faceva tutto rider l'oriente, velando i Pesci che erano in sua scorta. Luce e sorriso, la luce ridà il sorriso, ridà la gioia. Lo bel pianeta che d’amar conforta: Venere. Venere, stella del mattino che porta la luce, dea dell'amore. |
La purificazione. Fin dall’inizio del canto appare lo spazio naturale, la luce, l'oriente. Nell’insieme uno scenario liturgico, in cui avviene una trasformazione. E a seguire comincia una liturgia pratica. Cosa deve fare Dante?. Ecco la prescrizione. Dice Catone a Virgilio: va, dunque, e fa che tu, costui, ricinghe d’un giunco schietto, e che gli lavi il viso, sì che ogni suicidume, quindi, stinghe. Costui ha bisogno di essere lavato perché è sporco, il sudiciume deve scomparire. Per questo prima lo devi cingere con un giunco. Chiara è la metafora della purificazione interiore indotta dalla virtù (il giunco). E più avanti: Questa isoletta, intorno, ad imo ad imo, Laggiù, colà dove la batte l’onda, porta dei giunchi sopra ‘l molle limo. Null’altra pianta, che facesse fronda, o indurasse, vi puote avere vita, però ch’alle percosse non seconda. La virtù non indurisce perché si piega sotto il vento. Non oppone resistenza, e quindi non si rompe. La virtù è docile, non è rigida, altrimenti sarebbe rotta dalle difficoltà della vita. Soprattutto è umile, non ha fronda, non ha fronzoli. Perché bisogna sempre partire dall’umiltà, da questa capacità di curvarsi. E così Virgilio e Dante cominciano a camminare verso la luce. La luce finalmente illumina il mondo. L'alba vinceva l'ora matutina, che fuggia innanzi, sì che, di lontano, conobbi il tremolar della marina, Il chiarore antelucano sta svanendo. La luce incalza. Viene l’alba. Nel chiarore antelucano le cose stavano nell'ombra, c'era una luce rarefatta, che non lascviava vedere gli oggetti. Con l'alba la luce fa apparire in lontananza il mare e la bellezza delle cose sulla terra. È la gioia dei sensi. E qui c'è un passaggio molto bello Noi andavam per lo solingo piano, com’uom, che torna alla perduta strada, che, infino ad essa, gli pare ire invano. Dante aveva perduto la strada nel “mezzo del cammin”. Aveva smarrtito la giusta via. Aveva vagato senza meta e ora trova la strada: la strada della virtù. Dopo avere visto il male, l’inferno, uomini per sempre prigionieri del vizio in cui si erano perduti. Quando noi fummo là, ove la rugiada Pugna col sole, e, per essere in parte Dove adorezza, poco si dirada ; Ambo le mani, in su l' erbetta, sparte Soavemente, il mio maestro pose: ond’io che fui accorto di sua arte, porsi ver lui le guance lagrimose: Ivi mi fece tutto discoperto Quel color, che l'Inferno mi nascose. Virgilio gli lava il viso. Venimmo, poi, in sul lito diserto, Che mai non vide navicar sue acque Uomo, che, di tornar, sia poscia sperto. Quivi mi cinse, sì com'altrui piacque: Oh, maraviglia ! Ché, qual egli scelse L'umile pianta, cotal si rinacque Subitamente, là, onde l'avelse. Virgilio stacca il giunco, e lì dove il giunco è stato staccato, ne rinasce uno nuovo. La virtù si rinnova. E con il giunco gli cinge i fianchi. Nella liturgia cingere i fianchi è segno di umiltà, ma è segno anche del contenimento della passione. |