La Guerra
Ricordi dell'infanzia.
Alcune immagini della Guerra.
Lo zio Pompo Una sera, in casa dei nonni contadini alla Pietraia. Uno zio simpatico e giovane, seduto in una delle seggiole disposte in circolo intorno ad un grande camino acceso, mi teneva, io dritto, tra le sue gambe. Si chiamava Paolo, ma era lo zio Pompo, il fratello più giovane (erano 4 in tutto) di mia madre, il giorno prima della sua partenza in guerra. C’era allegria. Ma era una allegria forzata. Davanti ad un grande caminetto acceso, il nonno, un vecchio contadino burbero, stava seduto su un lato interno del caminetto, con lo sguardo fisso sul fuoco, immobile e pensoso. . Lo zio Pompo mi stringeva amorevolmente le spalle. Non sembrava preoccupato di dover partire il giorno dopo per la guerra. È morto quasi subito: a 20 anni. Oggi è sepolto nel cimitero di S. Marco di Camucia, insieme ai suoi due vecchi. Questa è l'unica sua foto che ho trovato. Il suo corpo, (cioè alcune ossa racchiuse in una cassetta), è stato restituito dalle autorità moltissimi anni dopo. Il pianto della mamma Il pianto silenzioso, composto, della mamma per la notizia della morte dello zio Pompo, a 20 anni, subito dopo la sua partenza. Il rifugio Siamo dentro un rifugio costruito all'interno di una collinetta. Una ventina di persone in tutto. Il rifugio ha due aperture alle due estremità di una specie di budello sotterraneo molto largo. Fuori gli inglesi con dei carri armati. Siamo dentro perchè c'è stato l'allarme bombardamento. Chiedo di fare pipì fuori. Mio padre si affaccia sull'apertura e parlotta con un soldato. Il soldato mi prende per mano e io lo seguo. Il babbo viene invitato a restare dentro. Faccio la pipì sopra il rifugio, una collinetta. Resto abbacinato dal carro armato. Il soldato mi prende in braccio e mi fa salire sopra i cingoli. Poi mi riporta dentro. La Grande Corsa Il rumore cupo dei bombardieri, anche se atteso, giunse quasi d'improvviso (poi fecero terra bruciata). Era passato non troppo tempo, non più di un'ora, dalla mia pipì e arrivò l'ordine di fuggire dal rifugio. Poiché l'obiettivo era l'aeroporto di Castiglione del Lago, ci fecero scappare dal rifugio nella direzione opposta. Ci disperdemmo di corsa in un campo di grano appena mietuto. Aggrappato al collo di mio padre, nella corsa ero sballottato sulla sua schiena, e le mani strette intorno alla sua gola non riuscivano a tenersi avvinghiate: le dita si scioglievano per il sudore che colava dalla sua faccia. Così il babbo doveva rallentare ogni tanto, quando sentiva che perdevo la presa, e mi rinsaccava su, con il colpo di reni tipico quando ci si carica un sacco pieno sopra le spalle. La mamma correva spedita accanto a lui e teneva per mano mia sorella di 9 anni, che piangeva, oltre che per la paura, perchè aveva perduto i sandali nella corsa ed era costretta a calcare a piedi nudi le stoppie del grano appena tagliato.Un quarto d'ora di corsa? Chissà. Poi il raduno in una casa di contadini con altre 40-50 persone raccolte dappertutto nella casa, con la sera che si avvicinava. I piedini feriti della Vera furono disinfettati e lei continuò a lamentarsi per il bruciore dell'alcool. Paura, sofferenza? Per niente: solo una esperienza straordinaria. Non avevo mai avuto paura delle bombe, a differenza della Vera che tremava letteralmente come una foglia quando sentiva il rombo degli aeroplani. Quindi era stata per me una giornata sbalorditiva. Ma quando arrivarono i fagiolini lessi per cena, arrivò anche la mia razione di sofferenza. Odiavo i fagiolini. Non sopportavo la verdura cotta di ogni genere:(rapi, cicoria, erba campagnola), ma cavolo e fagiolini non riuscivo nemmeno a deglutirli. E così quello che non avevano potuto le bombe nel ricordo di quella giornata, lo fecero i fagiolini. Con una resistenza cocciuta saltai la cena, rifiutando stupidamente anche il pane per protestare contro il mondo intero! Non ricordo se più tardi mangiai qualcosa. Immagino di sì. Il bombardamento Siamo nella cantina, un sotterraneo, di una grande casa contadina. Una ventina di persone addossate al muro, spaventate. Il locale è abbastanza grande, semibuio, illuminato da qualche candela. La sirena ha suonato. La sirena, utilizzata dalle aziende industriali per segnare inizio e fine dei turni di lavoro, è la stessa che in tempo di guerra avverte la popolazione dell'avvicinarsi di aerei nemici. Il suono, davvero lugubre, quello che si sente nei film di guerra, ha appena lanciato l'allarme bombardamento. Al suono della sirena si molla tutto e si scappa nel rifugio, di solito interrato. Poi l'attesa del passaggio degli aeroplani e la speranza che tutto finisca senza danni o peggio. Capita spesso, ma questa volta si comincia a sentire lo scoppio delle bombe, prima lontano, poi sempre più vicino. Non ho paura. La Vera comincia a piangere. Trema tutta. La mamma cerca di consolarla. Poi lo scoppio spaventoso, vicinissimo. Polvere che cade dalle pareti e dal soffitto. Ma finisce veramente lì: è andata bene. Il giorno dopo si contano le vittime dei più sfortunati. Passano dei carri tirati da buoi. Carri con le stanghe arrotondate, tipici delle campagne toscane. Tre carri stipati di morti, 4 o 5 uomini o donne, per ogni carro. Un po' di gente, ai lati della strada, assiste silenziosa al mesto passaggio. Ci sono anch'io con la mamma, che mi tiene per mano. Quel bombardamento aveva anche distrutto la casa dove ero nato 4 anni prima, ai Bertoni. | L'amore segreto dell'Annita. Da sfollati, io la mamma e la Vera, si dormiva in un locale, che era il piano superiore del granaio, a Pozzuolo. Il babbo era "richiamato" in servizio militare. Là dentro c'era il letto, in cui dormivamo in 3. C'era un tavolinetto e qualche seggiola. Per mangiare credo che si andasse in una grande casa di fronte, quella della famiglia che ci ospitava, edificio in cui era stato attrezzato anche il rifugio nelle cantine, sotto il piano terra. Quella era una sera speciale perchè la mamma mi mise a letto presto e mi impose di dormire. Non avevo sonno e la guardavo sferruzzare lì accanto. "Dormi" mi diceva ogni tanto. Poi arrivò l'Annita e parlarono un po'. E poco dopo entrò un giovane, che non riuscii a vedere perchè la mamma, al primo tentativo di tirare fuori la testa da sotto le coperte, mi ricacciò giù, e io obbedii per tutto il restante tempo di quel colloquio segreto. I due innamorati erano seduti nell'angolo meno illuminato della stanza e parlottavano a bassa voce. La mamma sferruzzava accanto a me perchè non tirassi fuori la testa dalle coperte. Non ricordo altro se non la sensazione che di notte tra un uomo e una donna le cose andassero diversamente che di giorno. Quella sera ero affascinato da quell'atmosfera di mistero, ma poi mi addormentai veramente. Cercai di sapere qualcosa di quell'incontro molti anni dopo, ma mia madre ha sempre tenuto la bocca chiusa, mentre la Vera mi ha raccontato poi che quello è stato il grande amore dell'Annita, di quelli giovanili che non si dimenticano più. Non ne ho mai parlato con l'Annita, (in seguito mia cugina prediletta), proprio a causa di quella sera speciale, quasi a non voler contaminare quel ricordo per lei sicuramente, anch'esso speciale. Angelina Le notti di guerra erano notti buie. Il rischio di bombardamenti imponeva di tenere bassa la luce. Niente lampade, ma solo candele. Così, dopo l'imbrunire, la tristezza e la paura prendevano il sopravvento. E il lume di candela non emette una luce allegra. Un atmosfera di allegria accompagna invece questo mio ricordo. Una decina di persone erano riunite in una casa di campagna intorno al tavolo della cucina molto grande, ma troppo stretto per i tanti intorno. La tipica veglia contadina di allora. Cercavano di esorcizzare la paura raccontando cose su cui ridevano. L’unica lampada centrale era abbastanza bassa sul tavolo e il portalampada concavo lasciava le persone in penombra. Tutto il soffitto e gran parte delle pareti erano al buio o quasi, e le finestre schermate per impedire alla debole luce di filtrare fuori. Ero in braccio alla mamma che era seduta in una delle seggiole intorno al tavolo e mi teneva sulle gambe. Tenevo i bracci appoggiati sul lato del tavolo. Il babbo non c'era. Era “richiamato”, cioè prestava servizio militare di guerra. Quindi ero piccolissimo, forse di 3-4 anni. Avevo imparato non so come una canzonetta che cantavo spesso in casa. Poiché mia madre si mostrava molta ammirata da questa performance, non perdevo occasione per esibirmi in casa. Così fu giocoforza per lei propormi quale protagonista musicale di quella serata. La canzone era “Angelina”. Passai in un attimo dalla totale felicità di stare in mezzo a tanta gente, in una atmosfera per me gioiosa, al terrore di dover uscire allo scoperto di fronte a persone abbastanza conosciute, ma non troppo, e cioè in una condizione di totale insicurezza, che la vicinanza della mamma non avrebbe dissolto. Preso così alla sprovvista, avrei voluto sprofondare sotto terra. I presenti intonarono cori di incoraggiamento, ma io mi rigirai verso mia madre, abbracciandola alla vita, in un tentativo disperato di resistenza. Iniziò una lotta senza speranza. Mia madre cercava di staccarmi da lei, perché cantassi la canzoncina, in mezzo ad un vociare che mi incitava e mi gridava di non avere paura. Mi tenni stretto a lei a lungo, ma alla fine dovetti cedere e fui issato in piedi sul tavolo, naturalmente deciso comunque a resistere e a non mollare di un millimetro. Così, mentre tutti continuavano ad incoraggiarmi, io riuscii solo a dire dei “no” a ripetizione. E alla fine la spuntai, riuscendo a riconquistare il più sicuro grembo materno. Io dare vino, tu dare cioccolata. 1945. Erano arrivati gli americani e un gruppo di carri armati attraversava la campagna di Pozzuolo verso Castiglione del Lago. Noi bambini venimmo addestrati per cercare di procurarci della cioccolata che i soldati distribuivano, lanciandola da sopra i carri armati. Erano ragazzi sorridenti, felici e allegri, che scherzavano con la gente che li salutava lungo la strada. Anche per loro, come per noi, quel passaggio significava la fine della guerra e festeggiavano. Quell'allegria mi è rimasta nel cuore. Ed è anche stata la prima e definitiva immagine dell'America. "Io dare vino, tu dare cioccolata", dovevamo gridare. Nelle tasche dei calzoncini corti due piccole bottigliette, che avremmo dovuto allungare o lanciare ai soldati al passaggio del carro, per avere in cambio la stecchetta. Ma nelle bottigliette non poteva esserci vino, troppo costoso. Così la mamma (come tutti) le riempiva con acqua (tre quarti) e aceto (un quarto). Quel miscuglio si chiamava, e si chiama, "acetello". Il primo approccio andò a buon fine. Il soldato assaggiò l'acetello e, ridendo, mi rilanciò la bottiglietta semivuota, insieme alla cioccolata. Provai un certo imbarazzo. Corsi a casa e chiesi alla mamma di mettere del vino nelle bottigliette, perchè non me la sentivo di ripetere il piccolo imbroglio. Ma la mamma, senza tanti complimenti, mi rimandò indietro con uno scappellotto e l'acetello. Il ritorno a casa degli americani a Petrignano 1945 - un camion, tra una colonna di mezzi che sfila davanti a casa, alla Madonnuccia, carico di soldati che cantano a squarciagola ubriachi e felici di tornare a casa vivi e un negro nudo che balla e canta sopra la cabina di uno di questi camion in movimento. Il cinema all'aperto degli americani sul campo appena mietuto dietro alla casa di Vetturino. estate 1944. La prima volta che ho sentito il boogie woogie. Stella d'argento La canzone popolare tra le più in voga di allora. Un canto di nostalgia per l'amato che non tornerà più. |