Giancarlo Sacconi

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I Servizi reali

Servizi reali alle imprese. Cosa sono.
L’offerta di servizi reali


Attività di servizio di vario genere sono state messe in campo dalle finanziarie a favore delle PMI.

Il concetto di servizi reali è piuttosto ampio e non ben determinabile. E’ difficile, infatti, circoscrivere un rapporto Finanziaria-PMI che si sviluppa con riferimento a molteplici connotazioni legate al territorio, al tipo e alla qualità dello sviluppo nella regione.
Questi servizi vanno dal sostegno alla formazione professionale, a consulenze di marketing, consulenze organizzative, sostegno all’export, costituzione e sostegno di centri servizi partecipati dalle stesse imprese, impegno nello sviluppo della innovazione tecnologica e nel trasferimento di tecnologie, interventi a sostegno della ricerca.

Anche in questi casi la forma prevalente di intervento è legata alla costituzione di società apposite.

Queste attività, nelle quali le SFR si sono impegnate soprattutto a partire dagli anni ottanta, erano spesso svolte attraverso società appositamente costituite.

Nei primi anni '80 si era data molta attenzione al significato da dare al termine reale.

Successivamente il discorso dei servizi reali è stato forse un po' falsato.
Anche e soprattutto a causa della legge 64, che ha usato questo termine in maniera indiscriminata, per cui tutto divenne servizio reale.

Ma qual è il vero concetto dei servizi reali?
Con il termine “servizio reale” abbiamo accreditato tutta una serie di azioni non strettamente manifatturiere. Prestazioni di attività di supporto all’attività di produzione, che però non si sono tradotte nell'azione di ridefinizione dei comportamenti strutturali, che di fatto sono lo strumento per articolare lo sviluppo, com'era nelle intenzioni iniziali.
In altre parole, molte Finanziarie hanno di fatto penalizzato una serie di pratiche amministrative, gestionali, di consulenza spicciola, che in realtà non costituiscono una politica strutturale.
 
I servizi reali sono pezzi di politica strutturale.
Fare i centri di servizio da soli, senza una politica strutturale dietro,
vuol dire condannare i centri di servizio al fallimento.
 
Il disegno di intervento così come venne immaginato alla fine degli anni Settanta, era legato all'idea dei comparti ben precisi, territorialmente definiti, monoprodotto: ad ogni comparto il suo centro.
 
In Emilia Romagna, ad un certo punto, si sviluppò un’idea per cui questa regione era fatta a macchie di leopardo:
ogni macchia faceva un prodotto,
ogni prodotto una specializzazione,
ogni specializzazione aveva il suo centro servizi.
Questa è una strutturazione che non può reggere.


Da ricostruire era, invece, l'innovazione di prodotto, a sostegno del prodotto, per la diffusione del prodotto, ma il vero problema stava nelle relazioni tra le imprese, relazioni che la mano pubblica deve "forzare".

Prima si immaginava che l’obiettivo fosse quello di creare dei distretti locali con una forte ideologizzazione (parliamo tutti lo stesso dialetto, siamo tutti della stessa area), mentre l’obiettivo è principalmente quello di portare, anche in sede locale, la massima apertura possibile.
Occorre sempre tenere presente che ci si trova in un momento di grande delicatezza, per cui la scelta fondamentale è quella tra lo scomparire e il crescere.

Nelle realtà locali, bisogna avere delle capacità di indurre anche delle autoselezioni, degli accorpamenti, ma soprattutto occorre rendere conto alle imprese che il problema il più delle volte è un problema di carattere finanziario o di carattere tecnologico, ma questo è solo un bandolo della matassa per ricostruire il riposizionamento delle imprese.
 
C'è un problema di servizi, di servizi in generale.

Se si guarda a come sono distribuiti i servizi alle imprese in Italia, si trovano delle situazioni molto scontate. Le città con meno di 500.000 abitanti hanno pochissimi servizi.
I servizi in Italia sono concentrati di fatto a Milano e a Roma e forse in qualche altra città (vedi Bologna e Firenze).
Questo perché i servizi hanno bisogno di agglomerazioni.

Quindi il vero problema non è quello delle società di servizio reale, che si sostituiscono ai servizi esistenti.
 
Certamente anche le città più piccole e le città intermedie hanno diritto ad avere tutta una serie di servizi. Ma non si può immaginare che debbano esserci servizi distribuiti territorialmente dappertutto.

Occorre impostare dei presidi che permettano da una parte di indurre le imprese a pensare a quali sono comunque le loro specializzazioni e, dall’altra, costituire dei centri che però siano sostanzialmente la canalizzazione verso i servizi dove essi si trovano (possono essere a Milano, ma anche a New York).

Perciò, occorre un fortissimo momento centrale a livello regionale, in cui si ripensa la politica, si rifà l’analisi dettagliata della situazione delle imprese e dei potenziali leader a livello locale, si ridefiniscono gli ambiti di opportunità.

Bisogna poi vedere, almeno nella mappa europea, quali sono i riferimenti possibili, sia competitivi, sia anche di collaborazione. Si deve agire perchè nelle diverse aree di specializzazione si possa crescere, creando agganci, ma agganci che devono essere soprattutto di tipo informativo, di ricostruzione delle relazioni di comportamento.
  Il ruolo delle Università
La tendenza del ricominciare sempre da capo è una tendenza fortissima.
L’idea che, tutte le volte che si parla di polo tecnologico, di polo scientifico si debba ricominciare tutto da capo, è molto pericolosa.
Nonostante tutto, dentro le università italiane c’è più roba di quella che gli stessi rettori delle università italiane immaginano.
Il problema allora è quello di utilizzare al meglio la legislazione universitaria, per fare tanti centri in cui si creano poi anche possibilità di utilizzazione.
Questa è la cosa migliore che l’istituzione universitaria possa fare.
Le conoscenze che le istituzioni universitarie hanno in giro per il mondo sono già di per sé un dato fondamentale.
Bisogna forzare sia sul lato dell’autonomia degli enti locali, sia su quello dell’autonomia dell’università.
Bisogna far capire l’idea che l’autonomia passa anche per la collaborazione con gli enti locali.
Questo è un dato che spesso viene sottovalutato.
 
Per una politica industriale
In questo paese ci sono stati anni in cui chi parlava di politica industriale veniva considerato come un vetero.
Bisogna ripensare il congegno delle alleanze, delle condizioni locali, per poter fare le cose. La situazione attuale in Italia può costituire un vincolo pericolosissimo.
Fare la politica vuol dire ripensare i riposizionamenti strategici a livello europeo.
Non bisogna farsi incastrare in problemi del tipo: per fare un consiglio di amministrazione devono essere rappresentati tutti a livello locale, perché altrimenti giocano dei meccanismi di veto che creano dei problemi.
I Centri possono essere localizzati localmente, ma devono comunque avere posizionamento, e soprattutto collegamento a livello internazionale.
Quindi il centro del distretto che serviva semplicemente per dare uno o due servizi marginali alle imprese del posto, può darsi che possa ancora esistere.
Questo va fatto gestire all’associazione imprenditori o ai singoli.
Per questo tipo di centro, la Finanziaria regionale deve semplicemente garantirsi la struttura del controllo, anche dal punto di vista amministrativo. Ma questa è pre-politica.
Il problema della politica è l’idea che la politica industriale, come dice la Comunità Europea chiaramente, sia capacità di fare politiche strutturali, quindi con partecipazione su progetti che hanno una fortissima incidenza e sono fortemente pensati, già a livello internazionale.

Tre cose da fare

La prima cosa.
C’è una funzione di studio. Non basta fare l’analisi di quante imprese ci sono in un settore e quante in un altro.
Il fatto di avere una concentrazione di imprese tessili e di abbigliamento in un’area non aiuta a capire se quelle imprese fanno tutte le stesse cose o, ormai, dopo dieci e venti  anni, sono posizionate diversamente.
Bisogna mettersi a studiare che cosa in questi dieci-venti anni la ristrutturazione (prima a scendere, cioè a razionalizzare, e poi a crescere), ha significato in termini di diversità interna nei raggruppamenti d’impresa.
Non bisogna pensare oggi in termini di “le imprese tessili” o di “le imprese meccaniche”.
Bisogna vedere, all’interno di ogni gruppo, chi si è mosso in un senso, chi nell’altro.
 
Seconda cosa.
Si possono avere a livello territoriale tutti i presidi che vogliamo. Moltiplichiamoli, induciamo i Comuni ad essere i terminali. Induciamo le associazioni di categoria ad essere dei terminali. Se esistono i vecchi centri, che diventino essi stessi dei terminali. Bisogna creare il maggior numero di punti possibile, per indurre le imprese, prima di fare qualsiasi cosa, ad avere il massimo di chiarezza sui loro posizionamenti.
Il problema della internazionalizzazione non è più soltanto un problema di export.
Il più delle volte è un problema di capire a livello europeo chi è il partner o chi è l’avversario.
Bisogna stare attenti, perché ci sono dei problemi, in termini di qualità (tutti parlano di qualità), che comunque richiedono delle funzioni pubbliche (problemi di certificazione, problemi di standard, problemi di legislazione), che localmente non si riescono a surrogare.
Altri problemi richiedono funzioni nazionali.
Da una parte è necessaria una grande azione politica nei confronti delle autorità nazionali, perché facciano le cose, ma dall’altra parte si possono anche immaginare delle organizzazioni, specifiche per settore, anche al di là della competenza territoriale, facendosi promotori anche di iniziative che vanno al di là della regione, affinché queste poi questi si organizzino per conseguire queste capacità di di posizionamento.
 
Terza cosa.
Da ultimo, bisogna rendersi conto che siamo in una fase di ridefinizione di istituzioni, che interessa prima di tutto tutta l’area finanze, tutta l’area università, tutta l’area enti locali. Bisogna stimolare al massimo e utilizzare al meglio gli strumenti, già attivi, perché altrimenti la tendenza di ripiegare al ribasso, anche in termini di riforma, sembra molto alta.
Siamo in una fase in cui bisogna avere il coraggio di forzare gli ambiti su cui si è lavorato fino ad ora.