Giancarlo Sacconi

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Accidia

L’accidia è la voce dotta di pigrizia, un termine diffuso dalla Chiesa, che ne fece un vizio capitale perché non solo considerato peccato di negligenza, ma negligenza nell'esercizio della virtù.

Il suo nome viene dal greco akédia, che significa noncuranza.

L'accidia è un horror vacui, un grande vuoto, una voragine che attira.
L’accidia è sinonimo di pigrizia e viceversa.
Come altri vizi genera un piacere temporaneo.

Per gli antichi, che dell'ozio avevano un grande rispetto, non era una colpa, ma semplicemente un modo di essere come un altro.

E dunque la pigrizia non sarebbe poi gran male se secoli di morale cattolica non ci avessero insegnato a considerare questo atteggiamento un vizio capitale.

La sola preoccupazione dell'accidioso è quella di non muoversi e di non muovere, di lasciare le cose come stanno, tanto non c'è nulla per cui valga la pena di agire e impegnarsi.

Accidia e fatalismo vanno spesso a braccetto.
Dante colloca gli accidiosi: a sprofondare nella palude Stigia.

L’accidia non è un vizio a sé, come l'ira o la gola, ma un peccato di omissione. L’omissione del praticare il bene, anche là dove sarebbe possibile con poco sforzo.

I precettori di un tempo si accanivano contro l'accidia poiché, da moralisti, la consideravano l'anticamera della lussuria.
Ma anche rinunciando a voler identificare l'ozio con il vizio, non c'è dubbio che è l'intelligenza ad essere la più mortificata dalla pratica della pigrizia.
L’intelligenza, assopita, si ripiega su se stessa
La vitalità si compiace unicamente di non venire spesa.
L'accidia chiede dedizione: è un abbraccio mortale.

Vi sono vizi che sono vie di perfezione, mezzi di conoscenza.
Ma l'accidia porta a un nulla narcisistico, alla contemplazione della propria inutilità.

Qualcuno obietta che, essendo l'uomo costretto continuamente a scegliere, il non agire sembra essere l'ultimo rifugio della saggezza, un modo di non sbagliare, in definitiva di salvarsi.
Per questo, forse, essa è un'inclinazione così naturale nei giovani, ai quali le prospettive del vivere sembrano, specialmente oggi, più indecifrabili che mai.
E sarebbe una giustificazione legittima se non rimanesse il dubbio che una tale inazione non sia dettata dalla coscienza della complessità dei problemi, quanto dalla riluttanza ad affrontarli, da una neghittosità del carattere che sembra comune a un'intera generazione.

E certo, se l'accidia discende dal temperamento, è anche vero che essa è incentivata dal benessere delle famiglie.

È vero. Ecco l'alibi culturale: l'atarassia, la suprema indifferenza di fronte alle passioni. In realtà, la pigrizia elevata a sistema filosofia. Perché correre, perché agitarsi, quando tutto è perituro, e comunque precario? Allora provo a mettermi dall'altra parte, e a chiedermi se per caso, in un mondo che arranca trafelato, in una società dominata dal mito della competizione, non sia per caso l'inerzia una virtù.
Scegliere di non intervenire non è un atto tra i più ignobili, eppure ripugna alla coscienza abituata da sempre a porsi dei traguardi più o meno nobili.


Se osserviamo il passato troviamo che sempre sono esistiti movimenti collettivi di astensione. Sette di ogni genere hanno cercato di dare alla pigrizia una legittimità ideologica.
Quella dei « figli dei fiori », tanto per citare quella più cara ai giovani, mantiene ancora oggi, dopo qualche decennio, un suo fascino. Ogni volta c'è, all'origine, una ventata di rivolta, un desiderio di opposizione, una volontà combattiva di trasgressione, che si trasforma poi in vittimismo.
E così quell'ebrezza, quella romantica ribellione sfocia, oggi come allora, nella droga, nella fuga dalla realtà, nell'autodistruzione.

L'uso di massa della droga, ecco l'accidia della nostra epoca.
Vale a dire una specie di infezione maligna, un cancro dell'anima i cui effetti sono invisibili ma operano in profondità.
Quella beatitudine di cui sembra di essere padroni si trasforma insensibilmente in tirannia.
Giorno dopo giorno una sorta di torpore condiziona la volontà.
Ogni proposito è messo in dubbio, ogni decisione rimandata.
E chi non sa assumersi il minimo impegno, non realizza alcunché.
Infingardo, aggettivo in disuso, continua a valere per colui che si abbandona al proprio nulla, al trascorrere ozioso del tempo che non diventa tuttavia meditazione sul tempo o sulla storia ma semplice vegetare.

L'accidioso è spesso taciturno, forse perché sono sconosciute a lui stesso le ragioni di tanta inerzia. Perché prima di essere fisica la pigrizia è mentale, è uno stato insondabile di abbandono, una incapacità a uscire dal guscio, una vocazione al letargo.
Il pigro rinuncia a competere alla gara che sa di non poter comunque vincere, e dunque per orgoglio, cerca degli alibi alla sua passività, o, come si suol dire, razionalizza.

C'è da domandarsi che cosa faccia da supporto a questo stato, e che ruolo vi abbia la presunzione piuttosto che la disistima di sé.
Se cioè certi momenti di accidia non siano dettati dal timore che, agendo, si possa essere comunque disillusi e quindi costretti a prendere coscienza di deficienze insospettate.
Chiudersi, abdicare, giacere in una poltrona ascoltando il pulsare quieto del corpo è meno stressante e rischioso che proporsi un qualsiasi obiettivo.

Ma l'accidia non è soltanto il rimanere immobili. Si può correre e nello stesso tempo non desiderare alcun cambiamento, nessuna novità, niente che alteri il ritmo sperimentato dell'abitudine.
Si può apparire disinvolti e simpatici e poi non possedere neppure un filo di disponibilità a spendersi per una persona o per una causa.
Si può essere egoisti, in tutti c'è una certa dose di egoismo.
Ma l'accidia oltrepassa la soglia dell'egoismo: essa è chiusura asso­luta, ritrattazione di ciò che accade intorno, partecipazione negata.

Eppure mi fa essere tollerante verso questo vizio un vago complesso di colpa: quello di sapere che forse il mio affannarmi e competere e lottare, il mio desiderio di affermazione e conquista non è così limpido come si vorrebbe, ma inquinato di quella ferocia che la pigrizia al­meno non conosce.

Alla pratica dell'accidia occorre molto narcisismo. Una capacità infinita di autoassoluzione. Simile al desiderio di libertà essa sa inventare pretesti innumerevoli, chiede spazi, dilazioni, comprensioni da tutti.

E si finisce di stancare tutti, anche le persone più care.