Gregorio Magno
Quella che
segue è una sintesi dell'analisi di René Berger.
Il pittore mira a fare il ritratto di Papa Gregorio I
- Gregorio
Magno (540-604).
Per ritratto s'intende la riproduzione dei lineamenti del modello.
E l’aspetto esteriore del personaggio ne permette l’identificazione.
Ma come esprimere l’eccezionale personalità dell'uomo che fu uno dei
più grandi Pontefici nella storia della Chiesa?
L’uomo che salvò Roma dalla carestia, convinse i Longobardi a
togliere l'assedio, troncò il diffondersi dell’eresia, lottando
vigorosamente contro i pericoli esterni, promosse la propagazione
della fede cattolica, rinnovò completamente la Liturgia e il canto
liturgico. In breve fu uno straordinario protagonista del suo tempo.
L’artista ha eseguito l’opera sei secoli dopo la sua morte.
L'importante, per lui, non è riprodurre un modello.
Egli vuole esprimere l’interiorità di quell'uomo, il suo prestigio;
la potenza ultraterrena che Dio gli ha conferita.
Ma il pittore deve fare i conti con le esigenze della forma.
Egli dispone di una superficie piana: un foglio pergamena, la pagina
di un manoscritto, partendo dalla quale dovrà creare uno spazio atto
a ricevere e a rappresentare cotanta personalità.
A prima vista il risultato sembrerebbe pessimo.
Ci vuole un bel coraggio a rappresentare un cosi gran santo col
corpo perfettamente piatto, una testa microscopica, la barba
azzurra, i ginocchi troppo bassi e le gambe larghe. Per non parlare
delle bracci e di quelle mani che sembrano atrofizzate.
È chiaro che la figura del santo sembra deforme se la si confronta
con l'idea che ci si fa abitualmente dell'uomo. Ma, considerata
nella prospettiva dell'arte, produce una reazione ben diversa.
L'artista sceglie dunque deliberatamente di dipingere San Gregorio,
solo e in primo piano, così da occupare tutta la facciata.
L'espressione della potenza esige un mutamento di proporzioni.
L'artista riduce dunque testa, gambe e braccia, diminuendo le
estremità a vantaggio del nucleo centrale, ma dato che si muove in
uno spazio bidimensionale e che non può ricorrere ai volumi,
sviluppa il tronco in altezza.
Questa “deformazione” potrebbe infastidire se l'artista aggiungesse
meccanicamente al corpo quanto va togliendo alle membra.
Ma egli si adopera con molta cura per trasformare adeguatamente lo
spazio.
Da un lato vi introduce elementi stabilizzatori, rappresentati
soprattutto dalle figure geometriche, rettangolo del fondo,
rettangolo del seggio, rettangolo del libro, disco dell'aureola,
pallio biforcuto, linee rette, ecc.
dall'altro, vi associa elementi mobili: curve nei capelli, nella
barba, nel collo, nell'orlo della pianeta, nel fregio dello sfondo,
e soprattutto ombre delle pieghe ricascanti sulla pianeta, che
serpeggiano sulla manica, e ruotano intorno ai ginocchi. Queste due
sorta di elementi generano rapporti che “naturalizzano” la
deformazione e ne fanno una “assimilazione plastica”.
Il pallio, con la sua fascia verticale e diritta, contiene l'empito
delle pieghe. Ritroviamo lo stesso effetto nelle maniche, la cui
apertura, con un sistema di rette, diventa rigida come metallo,
mentre altrove il paramento pare abbandonarsi, rilasciato.
Sebbene legato alla superficie della pagina, lo spazio della
miniatura non è affatto rigido, ma animato dal sistema delle
equivalenze plastiche.
Lo conferma il modo con cui è trattato il basso del ritratto.
A destra, le pieghe che si aprono a ventaglio sopra il ginocchio,
sono riprese all'estremità della dalmatica da una linea retta che le
rinsalda.
A sinistra, invece, dove le pieghe verdi scorrono come acqua in
fondo al camice, l'equilibrio viene ristabilito dalla rigidezza del
pesante passamano.
Ma ci sono rapporti ancora più sottili: il libro aperto e la testa
del santo farebbero «piegare» il dipinto verso destra, se l'asse del
pallio, leggermente deviato a sinistra della linea mediana, non lo
raddrizzasse agli occhi dello spettatore.
Anche il piano del sedile contribuisce a questa correzione plastica:
l'estremità destra non è evidente, mentre a sinistra l'artista ne
mostra il bordo coll'intento di “zavorrare” questa parte del
dipinto.
I lineamenti personali del pontefice scompaiono davanti
all'autenticità del santo e la sua potenza non viene descritta, ma
diventa verità espressa di cui sentiamo la forza e comprendiamo il
senso, unicamente grazie all'apporto di mezzi plastici.
Sollecitata da questi, la nostra attenzione non si ferma più sulle
sproporzioni anatomiche, trascura l'atrofia delle estremità, per
aderire interamente al mobile sistema dei piani, dei colori e delle
linee.
Non chiediamo che la potenza del santo ci venga provata da qualche
gesto ostentato, come avviene ad esempio nella rappresentazione di
oratori con le braccia gesticolanti, o nel caso di generali in
uniforme, dove la grandezza corrisponde ad un dea bella e fatta.
Non chiediamo più che ci sia mostrata con una figura tesa in ogni
muscolo nel massimo dello sforzo (alla maniera del realismo
fotografico).
Accettiamo, invece; la sua traduzione in linguaggio plastico.
Un dipinto fedele non è quindi quello che si costringe a copiare la
natura o il modello, ma quello che dà alla verità umana
un’espressione formale equivalente.
Nella riproduzione:
Arte romanica. S. Gregorio, miniatura, XII secolo. Parigi, Bibliothèque nationale. Foto Bibliothèque nationale.